Dollhouse racconta la storia straziante di Yoshie e Tadahiko, una coppia devastata dalla morte della figlia Mei, di soli cinque anni. La madre Yoshie, interpretata da Jun Fubuki, sprofonda in una spirale di disperazione finché non trova in un mercato dell’usato una bambola inquietante, identica alla figlia scomparsa. L’acquisto segna l’inizio di una discesa negli incubi, dove il lutto si trasforma in un horror soprannaturale, alimentato da presenze maligne legate alla bambola.
Temi e stili di Dollhouse.
Shinobu Yaguchi, noto per lavori che mescolano dramma psicologico e elementi surreali, costruisce un’esplorazione viscerale del dolore e della colpa. La bambola, simbolo della perdita, diventa un catalizzatore per forze oscure, evocando temi classici del J-horror come l’ossessione e la fusione tra mondo reale e spirituale. La regia alterna momenti di silenzio claustrofobico a sequenze cariche di tensione, sfruttando un’estetica che ricorda opere come Ju-On o Ringu, ma con una sensibilità più introspettiva.

L’orrore non si limita agli jump scare: Yaguchi gioca con l’ambiguità tra follia e possessione, lasciando allo spettatore il dubbio se le apparizioni siano proiezioni della psiche di Yoshie o entità autonome. Questo dualismo riflette una critica sottile alla società giapponese, spesso silenziosa di fronte al trauma individuale.
Performances on-point.
Jun Fubuki offre una performance straziante nel ruolo della madre in lutto, trascinando lo spettatore nel suo vortice di angoscia. La sua recitazione sobria ma intensa contrasta con il caos soprannaturale, creando un equilibrio narrativo che amplifica l’impatto emotivo. Masami Nagasawa, nel ruolo del marito Tadahiko, incarna invece la razionalità impotente, aggiungendo strati di tensione alla dinamica familiare.
Fotografia fredda e a tratti leggermente costernante.
La fotografia, dominata da toni freddi e ombre profonde, enfatizza l’isolamento dei protagonisti. La casa, scenario principale, diventa un personaggio a sé: stanze vuote, oggetti che si spostano da soli e suoni distorti contribuiscono a un’atmosfera claustrofobica. Gli effetti pratici, preferiti al CGI, donano concretezza alle apparizioni, come la bambola i cui occhi seguono la telecamera con inquietante precisione.
Le bambole, un evergreen… ma che finale… cinico…
Pur attingendo a tropi del genere (case infestate, oggetti maledetti), Dollhouse si distingue per l’approccio introspettivo. A differenza di Hausu (1977), che decostruisce l’horror con ironia e surrealismo, Yaguchi opta per un realismo crudo, avvicinandosi a opere come Dark Water di Hideo Nakata. Tuttavia, il finale aperto e la mancanza di risposte definitive potrebbero dividere il pubblico, oscillando tra profondità filosofica e frustrazione narrativa. Tra l’altro il regista, un grande, ha portato con se’ al Far East Film Festival 27 la bambola utilizzata per le riprese. Ci raccontava che è stata realizzata da un’azienda specializzata in bambole: dal vivo è possibile notare la sua pregevole fattura.

Dollhouse è un horror maturo, che usa il soprannaturale per indagare il lutto e la fragilità umana. Pur non rivoluzionando il genere, offre sequenze memorabili e una profondità emotiva rara. Consigliato a chi apprezza il J-horror psicologico, anche se alcuni passaggi narrativi risultano prevedibili.