Vi siete persi la prima parte della retrospettiva circa alle avventure “Punta e Clicca? Date un occhio qui!

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Seguirà, l’anno dopo, uno dei pochissimi flop della LucasFilm Games, ovvero Loom. Il gioco ha un’ambientazione fantasy che si distacca nettamente dal resto della produzione della software house californiana, caratterizzandosi soprattutto per la sua bizzarra interfaccia. Il gioco non prevedeva inventario ed ogni interazione avveniva componendo melodie generate dalla combinazione di sole quattro note. Gli enigmi erano piuttosto semplici per gli standard dell’epoca e la durata dell’avventura non particolarmente estesa.

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Loom – 1990

Questa avventura abbandonava totalmente la libertà offerta dai titoli precedenti per abbracciare una linearità funzionale alla narrazione. La presenza, per la prima volta, di veri e propri “primi piani” manifestava la volontà, da parte dell’autore, di richiamare una grammatica visiva di chiara ascendenza filmica. Paradossalmente è nella qualità del racconto che Loom denota le sue maggiori carenze, soprattutto a causa del mancato accordo tra il registro epico e quello comico-demenziale. 

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The Secret of Monkey Island – 1990

Ma sempre nel 1990 nasce quella pietra miliare nella storia dell’intrattenimento videoludico che è The Secret of Monkey Island. Con questo titolo gli sviluppatori riescono nell’intento di creare una vera esperienza narrativa smaccatamente cinematografica. L’autore di Maniac Mansion intuì che incanalare la libertà concessa al giocatore all’interno di binari ben definiti fosse necessario al fine di costruire una narrazione coerente e dal ritmo serrato, coniugando così interattività ed esigenze autoriali. L’importanza di The Secret of Monkey Island all’interno della storia dei videogame è dunque principalmente legata al determinarsi di un importante mutamento nel ruolo del game designer che, mai come in questo titolo, da giocattolaio si trasformava in regista e cosciente artefice d’una precisa rappresentazione. Il gioco eliminava ogni possibilità d’imbattersi in “game over” e vicoli ciechi per scongiurare il rischio di un’interruzione brusca e “innaturale” del flusso del racconto. Nel loro demenziale nonsense, gli enigmi, mai troppo complessi, manifestavano con spiccata inclinazione goliardica per le trovate metaludiche e il tentativo di rendere scoperta l’assurdità sottesa ai meccanismi propri delle avventure grafiche. I perfetti dialoghi, magistralmente scritti, insieme ad un cast d’indimenticabili personaggi, contribuivano a confezionare un capolavoro senza tempo che inaugura l’epoca d’oro degli adventure.

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Commodore Amiga



Buona parte della storia delle avventure grafiche può essere riassunta nella rivalità tra Sierra e LucasArts. La prima si è soprattutto distinta per il coraggio nell’esplorare ogni nuova tecnologia come il VGA a 256 colori, il CD-ROM, il full motion video ed il 3D, al fine di costruire esperienze ludiche capaci di coniugare tradizione e sperimentazione. Meno prolifica della sua rivale, la LucasArts ha sempre confezionato le sue avventure con estrema cura, privilegiando all’innovazione tecnica, la scrittura comica e l’invenzione di personaggi entrati nell’immaginario di qualsiasi giocatore di vecchia data.  Dopo il grande successo di The Secret of Monkey Island l’avventura grafica si era ormai affermata come uno dei generi di maggior successo presso il grande pubblico. I grossi passi in avanti compiuti dall’hardware (l’arrivo dell’Amiga e, qualche anno dopo, dei nuovi processori Intel 486) avevano reso possibile creare lussureggianti sfondi disegnati a mano e animazioni sempre più fluide. 
Tra trovate demenziali ed infernali discese negli orrori del vodoo, attraverso universi fantasy e galassie lontanissime, la vasta produzione di questi due pilastri dell’industria videoludica ha impresso una traccia indelebile negli anni Novanta, lasciandoci il rimpianto d’un epoca irripetibile in cui le avventure grafiche hanno brillato di luce intensa. Un bagliore pian piano affievolitosi ma ancora vivo nelle nostre memorie videoludiche e nei molti eredi d’un genere che, come un’araba fenice, sembra sempre risorgere, proprio quando lo si è dato per spacciato. 

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The Secret of Monkey Island 2 – 1991

Ad un solo anno di distanza dal primo episodio, Lucasarts tornò a lavoro per realizzare il seguito del suo fenomenale capolavoro ovvero The Secret of Monkey Island 2 – LeChuck’s Revenge, perfezionando il progetto originario di un gioco a forte vocazione narrativa nel quale la linearità del gameplay fosse finalizzata a veicolare un racconto avvincente e coeso. Il gioco implementava due livelli di difficoltà: facile e difficile. In quest’ultima modalità Lucasarts sembrava voler rispondere a coloro che avevano trovato eccessivamente semplice il precedente capitolo, architettando enigmi stimolanti e riccamente articolati. Ancor meglio rispetto al titolo del 1990, il team di sceneggiatori riuscì brillantemente a fondere registri differenti: comico e grottesco, gotico e demenziale in una commistione di toni che teneva sempre vivo il coinvolgimento, culminando in un memorabile finale che ribaltava totalmente il punto di vista sulle vicende di Guybrush Threepwood. Graficamente il gioco beneficiava del passaggio ai 256 colori della VGA (standard che la Sierra aveva imposto già con il suo King’s Quest V), mentre gli splendidi temi musicali della serie potevano per la prima volta avvantaggiarsi dell’iMUSE (interactive music and sound effects), un sistema che permetteva ai brani midi di adattarsi dinamicamente alle azioni del giocatore. 

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King’s Quest VI – 1991

La Sierra rispondeva al capolavoro Lucas con il divertente Space Quest IV: Roger Wilco and the Time Rippers (in parte minato da scelte di design che rendevano il gioco troppo spesso frustrante) e, soprattutto, con King’s Quest VI. Quest’ultimo rappresenta probabilmente il miglior risultato raggiunto dalla Sierra nel periodo che precede Gabriel Knight. Merito soprattutto della scrittura di Jane Jensen (aveva esordito appena l’anno prima con EcoQuest) che alla cura per la costruzione dei puzzle (estremamente complessi, come da tradizione Sierra) coniugava un’attenzione per il racconto del tutto nuova per la serie. A seconda delle scelte intraprese dal giocatore, l’intero arco narrativo (enigmi compresi) poteva mutare. Ogni ramificazione dello sviluppo narrativo confluiva, però, in un unico finale. La consueta propensione della Sierra a sperimentare con le più moderne tecnologie – che ha sempre distinto questa software house dalla più tradizionalista Lucas – si manifestava nelle animazioni, per l’epoca, particolarmente “naturali”, ottenute attraverso la tecnica del “rotoscoping” (la riproduzione di disegni animati sulla base di scene girate “dal vivo”). 

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Indiana Jones: The Fate of Atlantis – 1992

Uno dei progetti più ambiziosi intrapresi della LucasArts fu, senza dubbio, Indiana Jones and the Fate of Atlantis del 1992. Libero da complessi d’inferiorità, il videogioco sfidava il cinema sul terreno del “fratello maggiore” e, appropriandosi d’un personaggio nato all’interno della dimensione filmica, non riadattava uno script pensato per il grande schermo (com’era accaduto con Indiana Jones and the Last Crusade) ma ne inventava uno del tutto originale. Il risultato fu un gioco che riusciva a coniugare la struttura non lineare di “Indy 3” alla compattezza narrativa della serie di Monkey Island, mettendo da parte la comicità demenziale e abbracciando invece, un registro decisamente più epico in linea con il personaggio dell’intrepido archeologo. Indiana Jones and the Fate of Atlantis era un autentico capolavoro di game design in cui, nonostante i molteplici bivi narrativi determinati da una complessa struttura reticolare, il racconto manteneva sempre coerenza ed efficacia. L’altissima rigiocabilità del titolo era assicurata dalla possibilità d’affrontare il gioco in moltissimi modi diversi (da soli o insieme a Sophia, la controparte femminile attraverso un approccio “ragionato” o arcade). Ogni scelta generava bivi che alteravano lo sviluppo narrativo con differenti locazioni e situazioni determinate dal nostro approccio al gioco anche da questo punto di vista non si è visto nulla che non fosse già stato fatto decenni prima.

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