Il 1993 è un anno estremamente importante per le avventure grafiche. L’affermazione dei CD-ROM apriva nuove strade e nuove possibilità al genere degli adventure. La notevole capacità di questi supporti rendeva finalmente possibile l’inserimento d’una mole di contenuti multimediali, tra cui lunghe cutscene ed il doppiaggio audio, inimmaginabile con la vecchia tecnologia dei floppy disk. É proprio nel 1993 che uscirono titoli come Myst e The 7th Guest i quali contribuirono in maniera significativa alla diffusione dei LaserDisc. Nello stesso anno Lucasarts pubblicò Day of the Tentacle e Sam & Max Hit the Road, mentre la Sierra ci regalava Gabriel Knight: Sins of the Fathers, oltre ai meno interessanti Leisure Suit Larry 6: Shape Up or Slip Out, Quest for Glory IV: Shadows of Darkness e Space Quest V: Roger Wilco in the Next Mutation.
Day of the Tentacle seguiva le vicende ed i personaggi nati nel 1987 con Maniac Mansion. Ritrovavamo vecchie conoscenze insieme ad altri nuovi personaggi. Pur trattandosi di semplici “maschere”, queste “caricature” apparivano ben assortite e sufficientemente fuori di testa da risultare immediatamente simpatiche.

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Day of Tentacle – LucasArts (1993)

Con Gabriel Knight: Sins of the Fathers la Sierra realizzava una delle più importanti avventure grafiche di tutti i tempi. Una storia di omicidi e riti vodoo ambientata nella suggestiva cornice di New Orleans, immersa in un’atmosfera sinistra, carica di fascino e sensualità così come di violenza e brutalità. Il protagonista era un romanziere di scarso talento con un’innata tendenza a prendere ogni cosa con leggerezza e una buona dose di spacconeria. Il viaggio da lui intrapreso si sarebbe però trasformato presto in un percorso di maturazione che lo avrebbe costretto ad assumere su di sé gravose responsabilità.

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Gabriel Knight: Sins of the Fathers – Sierra (1993)

Del tutto opposto il carattere di Grace, la giovane donna che gestiva la libreria del protagonista. Estremamente meticolosa sino alla pedanteria, la coprotagonista femminile non vedeva di buon occhio la “leggerezza” un po’ superficiale di Gabriel e le ironiche frecciatine che lanciava al suo datore di lavoro lasciavano spesso il segno. Questi due personaggi, pur non spiccando per una caratterizzazione sorprendentemente profonda, riuscivano comunque a risultare sempre credibili e dotati di un'”umanità” che scongiurava il rischio “macchietta”.

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King Quest VII – Sierra (1994)

Grazie al CD-ROM, ormai impostosi come imprescindibile standard, le avventure grafiche, comprese quelle che evitano di proporsi esplicitamente come “film interattivi”, non mancarono d’approfittare delle opportunità multimediali offerte dal supporto dei LaserDisc per approssimarsi sempre più al cartoon animato. La Sierra tentava la strada dell’estetica disneyana adottando l’alta definizione (erano i tempi in cui 640×480 significava HD) in King’s Quest VII: una fiaba interattiva che non rinunciava alla libertà del gameplay e ai puzzle a soluzione multipla, da sempre cavalli di battaglia della serie.

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Full Throttle – LucasArts (1995)

Lucasarts invece, con Full Throttle realizzava un vero e proprio “film” d’animazione in cui la narrazione e l’azione “arcade” prendevano, a tratti, il sopravvento su enigmi ed interattività. Per Lucasarts il gameplay è sempre finalizzato al racconto, così come gli enigmi non hanno mai l’intento di mettere il giocatore in difficoltà quanto, piuttosto, quella di sviluppare l’intreccio. Full Throttle è uno dei primi frutti (acerbi ma preziosi) di una concezione del videogioco che mira ad una visione autoriale più che al divertimento fine a sé stesso; osteggiato dai puristi della “vecchia scuola” che rimasero inorriditi di fronte alle numerose sequenze arcade, alla rigida linearità della struttura e alla semplicità dei puzzle.

Full Throttle screenshot
Full Throttle – LucasArts (1995)

Sin dalla strepitosa introduzione animata, s’intuiva chiaramente che la prima preoccupazione di Lucas fosse quella di raccontare una storia e, per raggiungere tale obiettivo, si appropriò di tutti gli espedienti propri del linguaggio filmico, resi possibili dall’efficacissima fusione tra animazione bidimensionale e 3D (ovviamente rigorosamente prerenderizzato): panoramiche, campi lunghi e primi piani, decoupage serrato e carrellate veloci in profondità, inseguendo i bolidi di metallo nella loro folle corsa lungo le “strade perdute” d’America. Ben, il protagonista, è uno degli ultimi centauri rimasti fedeli alla ruvida etica della strada, a quell’inebriante desiderio di libertà che è parte fondante del mito americano e dell’epopea della “frontiera”. Infarcito di rimandi al cinema Western, Ben, come John Wayne non si arrendeva al progresso ed ai tempi che cambiano, mantenendo una propria testarda purezza.

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The Dig – LucasArts (1995)

Nel 1995 vede la luce anche The Dig, una delle produzioni più travagliate della storia della LucasArts. Il progetto era partito nel lontano 1989 da un’idea di Steven Spielberg. Dopo essere passato attraverso le mani di ben 3 game designer è solo con Sean Clark che il titolo approderà finalmente sugli scaffali dei negozi. Il problema, come in seguito dichiarò lo stesso Clark, era essenzialmente di natura “culturale”, ovvero la Lucas non aveva mai realizzato un’avventura dai temi drammatici e dalle tonalità riflessive che omaggiavano la fantascienza “matura” degli anni ’60 e ’70. Sebbene fosse dotato d’un impianto grafico meno appariscente, la coerenza estetica con cui è stato immaginato il misterioso pianeta Cocytus rendono ancora oggi The Dig fu uno dei titoli Lucas visivamente più affascinanti (nonostante girasse ancora ad una definizione di 320×200). Merito anche delle splendide animazioni in 3D precalcolato (molte delle quali realizzate dall’Industrial Light & Magic) che s’integravano alla perfezione nei lussureggianti paesaggi disegnati a mano.

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The Dig – LucasArts (1995)

L’influenza di Myst nelle meccaniche di gioco era evidente. Come nel campione d’incassi della Cyan, il giocatore era innanzi tutto chiamato ad esplorare un mondo alieno abbandonato che portava ancora i segni di un’antica civiltà ormai scomparsa ed a comprenderne i misteri e le tecnologie. Gli enigmi rifiutavano dunque la logica demenziale tipica dei titoli Lucas e si avvicinavano molto al rompicapo logico la cui risoluzione consentiva l’attivazione di complessi macchinari. La sceneggiatura, sebbene ben scritta, scricchiolava un po’ sotto il peso delle sue ambizioni. Le riflessioni sulla fragilità della vita di fronte all’immensità del cosmo e sulla necessaria finitezza d’ogni esistenza non erano mai adeguatamente sviluppate, risolvendosi in maniera semplicistica.

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The Dig – LucasArts (1995)

Ma la grandezza di The Dig stava soprattutto nelle sue avvolgenti atmosfere alle quali le strepitose musiche di Michael Land davano un impagabile contributo e nel senso di meraviglia suscitato dai suggestivi scorci di Cocytus attraverso i quali si riverberava, malinconica, l’eco d’una civiltà che, nel desiderio di preservare la vita al di là del tempo e dello spazio, aveva smarrito il senso del limite e l’importanza di vivere il presente come individui finiti e mortali.

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